Sapete? Non ho mai avuto una gran considerazione del cerchio. Nulla di personale, ci mancherebbe. La colpa la dò a tutto l’hype che lo circonda, o meglio a quella pletora di filosofie che lo prendono a simbolo, dallo stoicismo agli alchimisti nelle varie epoche fino a Nietzsche e compagnia cantante con i loro urobori, le loro ruote, e quant’altro. L’∞ invece… l’∞ è tutt’altra cosa. L’∞ è come un cerchio con più carattere (a conti fatti, ne vale almeno due). Il solo pensiero che la storia sia intrappolata in una serie interminabile di corsi e ricorsi uguali tra loro mi dà la nausea. Tuttavia, l’idea che le cose abbiano l’abitudine di tornare, ma cambiate il giusto da rendersi a malapena riconoscibili, quella sì che è affascinante. Penso allo stupore che suscitano i palindromi o alla vertigine provocata da un nastro di Moebius. Penso a Ianus, sofisticato congegno narrativo incastonato nell’altrimenti trascurabile raccolta Batman: Il Mondo. Penso alla maniera in cui non finisce Mercurio Loi e all’abilità del suo autore di riuscire a prenderci tutte le volte per il cuore con i suoi stupefacenti esercizi di stile.
Il titolo dell’ultimo fumetto di Alessandro Bilotta spuntava fuori quattro anni fa, proprio mentre l’autore faceva incetta di premi per Mercurio Loi e ne suggeriva in qualche modo la prossima conclusione. Il nome ambizioso, un logo seducente e i nomi coinvolti bastavano a stuzzicare l’interesse tra i fan del fumettista romano. Ma il tempo passava, le pubblicazioni pure ed Eternity spariva dai radar, almeno fino a qualche mese fa, quando la Bonelli ne annuncia la pubblicazione per Audace, la nuova etichetta dedicata a storie indirizzate a un pubblico più maturo. Il mistero attorno all’opera però rimane e l’autore è bravo a mantenere il riserbo. Cosa sia effettivamente questo Eternity nessuno ne sa nulla, finché non raggiunge gli scaffali di fumetterie e librerie.
Apprendiamo dalla quarta di copertina che l’ambientazione è una “città che prometteva di essere eterna”, ossia Roma – non poteva essere altrimenti – , sita in una piega del tempo dove l’urgenza del futuro convive con una sorta di remissività nostalgica. Un mosaico retrofuturistico che fa da scenario a uno sfavillante noir cyberfelliniano raffigurato in maniera mirabile dall’immancabile Sergio Gerasi. L’artista stupisce ancora una volta con uno stile ricercato senza però tradire la raffinata eleganza cui ci ha abituati. La sua Roma è una città di contrasti capaci di mescolarsi con tale naturalezza da sembrare in qualche modo familiare, dove affettati cicisbei scendono dalla Flaminia di Mastroianni impugnando l’ultimo modello di smartphone traslucido, telefoni a gettoni presidiano gli angoli delle strade e il bianco e nero resiste stolidamente all’egemonia del colore. Un gioiello d’estetica che risplende nelle tinte glam e smaccatamente artificiose dei party, nei blu e nei gialli onirici delle notti romane, nelle luci stroboscopiche delle piste da ballo: merito, questo, di una magistrale Adele Matera (Orfani, Aqualung, Il Confine).
E, a proposito di party, è proprio a uno di questi che facciamo conoscenza di Sant’Alceste—al secolo Alceste Santacroce—firma di punta del settimanale L’Infinito. L’Infinito si occupa di costume, cronaca, storie di cui il pubblico si nutre per dare un senso alle proprie vite, sì, insomma, per farla breve: si occupa di gossip. Ospite fisso delle feste capitoline, Alceste è un osservatore sprezzante di una società autofaga e ne scandaglia i vizi e le assurdità alla ricerca di uno scoop. Esistono molti aggettivi per riassumere maldestramente il suo carattere—narcisista, opportunista, indolente—, ma la verità è che Bilotta ha dato vita a un personaggio che è davvero difficile prendere in simpatia, ma che promette di svelare a poco a poco i diversi strati della sua caratterizzazione, sorprendendo il lettore ad ogni decisione presa, ogni bizzarria, ogni risvolto emotivo conseguente alle sue scelte. Lo vediamo per la prima volta con il volto nascosto da una maschera, e non una maschera qualunque. Il faccione bianco di Guy Fawkes è certamente un sentito omaggio ad Alan Moore, ma con un pizzico di pervicacia si potrebbe azzardare almeno un altro livello o due di riflessione. Non è difficile infatti intravedere un gioco di riflessi tra i protagonisti dei rispettivi fumetti: se V concretizza la sua vendetta contro lo stato totalitario in cui vive a colpi di esplosivi, Alceste attenta allo stato delle cose con non meno devastanti bombe di gossip. La potenza deflagrante delle notizie si rende evidente nel finale del numero: è come una lama che cala su un velo di illusioni, la falce stessa della morte che miete vite ignare, impegnate fino a quel momento a inseguire l’eternità mezzo social o con una performance artistica, o, meglio ancora, con una bestemmia in diretta TV. Potrei sbagliarmi, ma questa ostinata ricerca di un significato nell’esistenza attraverso la sovraesposizione della propria immagine rivela una strettissima parentela tra Eternity e Gli Uomini della Settimana. Le due opere – almeno nei primi episodi – sembrano suggerire una verità comune, e cioè che solo in prima pagina si sopravvive. O forse no.
Se è vero che entrambe le opere mettono in scena due forme diverse di totalitarismo, sarebbe interessante andare a cercare le differenze tra le ambientazioni dei rispettivi fumetti: la Londra di V è dominata da un regime totalitario di stampo orwelliano, mentre l’aria di Roma sembra la stessa che si respira ne Il Mondo Nuovo, almeno nell’aspetto di un’umanità apparentemente libera dalle preoccupazioni che si è scelta da sé il regime cui sottostare: un regime che nasconde la sua vera indole dietro una facciata festaiola e patinata. A quale delle due immagini somigli di più il nostro mondo, decidetelo pure voi.
L’ultimo spunto di analisi me lo suggerisce lo stesso autore. Riguarda il fumetto come medium, la sua natura pop e allo stesso tempo controculturale, il suo supporto d’elezione, vale a dire la carta, che ritorna non solo come feticcio ma anche come oggetto in opposizione in quanto tangibile (e deperibile). E cos’è la collezione di fumetti nell’appartamento di Alceste se non il corrispettivo bilottiano della galleria di V, piena zeppa di oggetti condannati al rogo? Certo, nel mondo di Eternity a nessuno¹ verrebbe in mente di bruciare dei fumetti, ma soltanto perché non interessano più a nessuno. Ed è un peccato perché nei fumetti si possono incontrare persone straordinarie come in nessun altro luogo, in quelli di Bilotta poi la lista si fai veramente lunga. L’ultimo in ordine di tempo è Lucrezia, capace grazie alla sua bellezza di conquistare Alceste e, con la sua intelligenza, di eludere il suo sdegnoso paternalismo. Ciò che rende diversa Lucrezia dalle altre vecchie nuove fiamme del protagonista è l’angosciante consapevolezza del nulla che attende sotto la superficie delle cose. Lo capiamo dai tormenti che Gerasi riesce a delineare con grande espressività sul suo volto da modella e dalle conversazioni impregnate di nichilismo nei momenti di intimità, quando Lucrezia può essere se stessa senza filtri. Il suo rapporto con Alceste innesca un vero e proprio ribaltamento del cliché della dark lady che causa la disgrazia dell’eroe: se una cosa è chiara è che di eroi qui non ce ne sono e che semmai è il protagonista a ritrovarsi nei panni di un cinico homme fatale.
Nelle sue prime 68 pagine di vita, Eternity prosegue per certi versi nella direzione già intrapresa negli ultimi numeri di Mercurio Loi, dove l’azione è talmente rarefatta da sparire definitivamente. Il ritmo per l’appunto sembra seguire regole tutte sue, quelle delle passeggiate tanto care a Alessandro Bilotta tra le sue idee, i simboli e le stravaganze che i lettori avranno ormai imparato a conoscere.
Alla fine del viaggio—che poi è appena l’inizio—, oltre lo stupore, lo spiazzamento, ai sentimenti contrastanti che soltanto le opere più pregevoli riescono a suscitare, ciò che rimane più di tutte è la sensazione che questo primo numero sia né più né meno che un rutilante memento mori.
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